Facebook testimonies / Testimoni di Facebook: witnesses to the varieties of coronavirus suffering.
Umberto, un gran lavoratore della Brianza / Umberto, a great worker in Brianza
di Andrea Ballabio
Oggi vi voglio parlare di un mio carissimo amico e del suo dramma personale. Per capire meglio quello che sta passando in questo periodo di coronavirus, si deve però partire da lontano, altrimenti la portata della tragedia non verrebbe colta. Umberto nasce nel 1956 in una famiglia laboriosa. A undici mesi dice le sue prime parole. Di solito i bambini dicono mamma e papà, lui dice “straordinari in busta”. La famiglia al momento non dà peso alla cosa. A un anno e mezzo, chiede se può aiutare in bottega, gli dicono in malo modo di togliersi dai coglioni che è piccolo. Lui piange e la mamma lo consola, vedrai, un po’ di pazienza e lavorerai anche tu. A tre anni lo vestono per benino, lui sgrana gli occhi e chiede: mi state portando al lavoro? No cazzo, ti stiamo portando all’asilo! Altra crisi del bambino. All’asilo le suore gli vogliono bene, lui dà una mano alle inservienti e alle cuoche, mentre gli altri bambini fanno il sonnellino. Chiede alla madre superiora se possono venire a prenderlo un paio d’ore dopo, così fa un po’ di straordinari. Non gli rispondono, il bambino è bravo, bello, sano e ubbidiente, pensano che crescendo il suo problema passerà. Elementari e medie stessa storia, passa il tempo libero lavorando in bottega. Il tempo vola, Umberto è un bel ragazzo e trova la fidanzata. All’inizio tutto alla grande, poi si sa, siamo uomini, non è che si può sempre stare appiccicati, ci sono i propri interessi, gli amici. Lui no. Dice alla ragazza che vuole stare un po’ con gli amici e va a lavorare di nascosto. La ragazza lo ama, ma non sopporta le bugie: “sei andato a lavorare ancora, dì la verità?” – “No, ma figurati, mi sono ubriacato con gli amici e poi siamo andati a puttane…” – “Non è vero, tu mi menti, sei andato a lavorare come al solito!” E via così. Si fa una bella famiglia, così ha anche la scusa per lavorare senza che nessuno lo rimproveri. Come tutte le famiglie italiane, anche le famiglie brianzole tendono a fare un po’ di ferie estive. Mentre la famiglia si abbronza tranquilla in spiaggia, lui chiede a un paio di artigiani locali se può fare qualche ora, così, per tenersi in allenamento. Gli artigiani accettano, lui chiede se deve pagare qualcosa per il disturbo, quelli gli dicono che al massimo sono loro a dover pagare. E avanti così fino quasi ai giorni nostri. Poco tempo fa Umberto va in pensione, l’azienda gli chiede se vuole restare a lavorare. Umberto si mette a piangere dalla gioia, ringrazia tutti, è come se gli avessero tolto un peso dal cuore. Può lavorare quanto vuole.
Durante le ultime vacanze di Natale eravamo seduti da Frank, si rideva, si gridava, volavano le solite bestemmie beneaugurali. Insomma, c’era allegria. Umberto se ne stava in silenzio, col bicchiere in mano. Se non hai il bicchiere in mano ti possono venire addosso al mio paese, non ti vedono se non hai il bicchiere. Un uomo senza il bicchiere si confonde con gli interni del locale, è come essere trasparenti. Anni fa hanno ammazzato uno, è caduto e ha picchiato la testa. “Cazzo, non l’avevo visto: era senza bicchiere!” Omicidio colposo, condizionale e via lisci, le attenuanti c’erano tutte (il giudice era di qua, della Brianza alcolica, insomma). Bene, Umberto se ne stava in silenzio col bicchiere in mano, si diceva. “Che cos’hai?” – “Niente.” – “Sembri giù…” – “No, non ho niente.” – “Adesso, Dio Cristo, o dici cos’hai o mi incazzo!” – Sospiro… – “Queste feste di Natale, non finiscono più… Meno male che fra tre giorni si torna al lavoro.” Urla, bestemmie, rumore si sedie. Si agita anche lo zio Arturo, che era un po’ che stava calmo, e anche Carluccio, che se si agita fa danni. Insomma, passano questi ultimi tre giorni, Umberto torna al lavoro e tutto si sistema.
Adesso arriva l’epidemia. La prestigiosa ditta (leader planetaria nel settore poliuretani che io neanche so che cazzo siano), dove Umberto lavora, decide di chiudere. Non si può lavorare. Lo becco in piazzetta, davanti al giornalaio. E’ un’altra persona, irriconoscibile. Gli dico: “come va?” Mi guarda negli occhi e dice: “la ditta ha deciso di chiudere.” Non commento, ho già capito tutto. Avviso gli altri: “stategli vicino: è un brutto momento”. Lo rivedo il giorno dopo, vorrei abbracciarlo ma è vietato per il virus, gli dico: “ma sì, vedrai che fra un po’ riaprono…” Gli occhi gli brillano per un attimo: “sì, ma quando?” – “Cazzo ne so, quando, quando…” Mica sono un indovino! Io a questo punto per non sapere né leggere né scrivere dico: ma fanno i campionati mondiali delle più grandi minchiate, perché non fanno i campionati mondiali di lavoro? Non è giusto, abbiamo un campione qui in paese e non lo fanno esprimere. E’ sempre così quando nasci nei piccoli paesi. Magari hai talento, ma per colpa della location non ottieni il giusto riconoscimento. Qua se non riaprono finisce male, la depressione è una brutta bestia. E io a Umberto voglio bene, per lui darei cinque anni della vita di un altro.
Pubblicato per gentile concessione di Umberto Beacco, brava persona, caro amico. E – ovviamente – gran lavoratore.
Milano, 24 Febbraio 2020 / Milan, 24 February 2020
di Rosa Quaranta
Milano (senza le sue corse quotidiane) oggi è magica e soffice come la neve. Basta spegnere tutto e la quiete diventa così pacificante! Conclusione poetica e fantastica… Forse, più che di un paziente zero, abbiamo tutti bisogno di un giorno zero per fare silenzio, restare fermi, sospendere le gare di sopravvivenza. Darci una tregua.
Una paglia / A smoke
di Alessandro Terreni
Ha un repertorio poco vario ma di spessore: O mia bela madunina, Marina ti voglio al più presto sposar, Bella ciao. Attacca alle nove con la melodica che non mi sembra un organo. Mi affaccio al balcone per vedere chi è: potrebbe essere turco o romeno… sta seduto su uno sgabello da campeggio simile a quelli che i miei avevano negli anni Settanta. Potrebbe avere 50 come 70 anni. Ovviamente la strada è deserta. Due ragazze di fronte gli battono il tempo quando attacca Bella ciao. Allora mi riaffaccio. Mi vede. Mi fa il gesto di fumare: vuole una paglia, credo. Glielo chiedo: vuoi una sigaretta? Si anima e saltella dicendo sì sì, ma io ho smesso di fumare 15 anni fa. Gli dico no, mi spiace non ce l’ho… dall’espressione che fa, non mi crede. Si risiede deluso e attacca la Madunina. Mi dà un po’ fastidio passare per ingeneroso, ma insomma paglie in casa non ce n’è. Apro il portafoglio e non ho contante… però racimolo qualche monetina tra pantaloni e cassetti. Che cosa faccio? Non sono il marchese del Grillo, mica posso lanciargli in testa una manciata di pezzi da 5 e da 10 centesimi… rischio pure di fargli male. Allora appronto un pacchetto con lo scottex chiuso con un elastico verde e lo chiamo. Saltella come prima: non si capisce se fa il giullare per compiacermi o prendermi in giro, ma chissene. Glielo dico che non sono tanti soldi e che però la sigaretta non ce l’ho davvero, poi gli butto il pacchetto. Mi dice qualcosa come grazie mister e altro che non capisco, perché non ha molti denti. Poi rientro ma torno fuori perché nell’andirivieni ho visto delle erbacce nel vaso dell’euforbia. Mi vede e mi chiama: mi mostra una paglia pronta per essere accesa. Gliel’ha data un altro amico, dice. Saltella come prima, con le gambe curve verso l’esterno. Credevo che fosse una pantomima per chiedermi soldi, ma voleva davvero una sigaretta per il piacere di fumarsela. Adesso se la sta pippando con gusto. Tra poco, se ho capito il suo programma di sala, dovrebbe essere il turno di Marina Marina Marina.
Improvvisamente, adulta / Without warning: adult
di Vera Tisot
Da agosto 2018 la mia vita sembra essere sospesa dentro un incubo senza fine. Cerco di non pensarci troppo e di tenere impegnata la testa in altre attività, ma la notte spesso sogno di ritrovarmi in quell’estate di due anni fa e di scendere dal letto in una mattina di sole, dove nulla di male potrà accadere.
Poi però mi sveglio da quest’altra parte e tutto è maledettamente accaduto. All’inizio il tumore di mio papà. E quando senti quella parola, cominciano già a volarti intorno i corvi neri. La chemio, la radio, poi l’arresto cardiaco sulla strada, mentre passeggiava con la nostra cagnolina. Quarantadue anni di lavoro e due di pensione e non ti va giù. Dopo qualche settimana il tumore della cagnolina. Andiamo al lago e lei cade sulla riva, guardandomi come Artax nelle paludi della tristezza. Poco dopo, la decisione di sopprimerla, perché ormai nel suo respiro sentivamo solo il fiato della morte. Nove mesi di coma vegetativo di mio papà. Vimercate, Zingonia, Capriate. Infezioni su infezioni e scompensi cardiaci. Un capodanno passato fino alle tre di notte in clinica, per poi tirare un sospiro di sollievo, per averlo ancora lì con noi, semplicemente a respirare. Poi le trasfusioni. Io che piango fuori dal pronto soccorso di Zingonia nelle braccia di un diciottenne che mi consola con il suo ottimismo. Mi offre tre sigarette, anche se non fumo. Ma poi le fumo, e piango tanto. Per mio papà soprattutto, ma anche per la cagnolina, e anche un po’ per “come cazzo sono conciati nei pronto soccorso e negli ospedali!”.
Infine il suo ultimo infarto e di nuovo quel fetido alito di morte.
Dal giorno dopo il funerale sono chiusa in casa. Ormai è quasi un mese.
Oggi mi ritengo addirittura fortunata di aver potuto stringere le mani per l’ultima volta di quello che considererò per sempre il migliore papa’ che potessi sognare, il mio più grande amico, e di aver avuto insieme alla mia famiglia qualche giorno di raccoglimento. Fosse successo anche soltanto la settimana successiva, non avremmo avuto questa “fortuna”.
In queste settimane di quarantena esco solo per le passeggiate con la mia nuova cagnolina. Due uscite al giorno. Di solito erano tre, ma ho ridotto per l’emergenza.
E anche questa la considero un’altra piccola fortuna. Perchè in quelle passeggiate, in campagna, dietro casa mia, proprio lungo la strada dove ha passeggiato per l’ultima volta mio padre, io elaboro i miei lutti.
Settimana scorsa, ho incontrato una donna che correva con tre ragazzi giovani giovani, forse i suoi figli. Belli loro, io avrei voluto urlargli dietro con tutta me stessa, perché non avevano nessun motivo per stare lì: solo io avevo il diritto di stare lì, su quella strada, nel mio dolore e nella mia rabbia.
Nei giorni seguenti ho incontrato una donna con un passeggino e la sua piccola che camminava al suo fianco, ci siamo scambiate un sorriso silenzioso a tre metri di distanza. Poi un ragazzo con uno zainetto e gli occhi lucidi come i miei. E ancora, un uomo con un cane, che ha deviato il percorso per starmi distante più che poteva, ma poi da lontano si è sbracciato a farmi un ciao, come se mi conoscesse da sempre.
Forse un giorno una grande, o un grande regista farà un film su questa durissima vicenda del Coronavirus. Guarderà la paura fino in fondo, in queste contraddizioni del sentire umano, dove si annida l’umanità. E poi prenderà posizione, come ogni grande regista che si rispetti. Sotto l’intreccio delle storie individuali di ciascun personaggio, ci sarà un ospedale costretto a scegliere tra il giovane e il vecchio, e una classe politica che non riesce a riportare quella economica nel suo alveolo. E nel farci vedere come ci siamo ridotti, forse ci farà cogliere alcuni nessi, e ci aiuterà a comprendere ciò che siamo soliti dimenticare. E cioè che le scelte sbagliate le abbiamo fatte tutti quanti e sarebbe anche ora di guardare dritto in faccia la nostra collera, la nostra grande insoddisfazione di vivere una vita che non vogliamo così, in un mondo che non vogliamo così.
La sera esco tardi con la mia nuova cagnolina e non incontro nessuno.
Si sente solo il suono del silenzio e sembra di stare dentro “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.
In questa strana storia surreale, in fondo sarebbe bello se dal cielo notturno sbucassero fuori tante piccole e grandi navicelle, tutte colorate e dalle forme più svariate, proprio come nei disegni dei bambini. E perché no? Magari anche una a forma di cono gelato.
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